mercoledì 25 giugno 2014

Osteria della Sòla



(data originale post: 19/03/2009)

Sono due giorni che inizio a scrivere questo post e succede qualcosa che mi fa rimandare….è un po’ la caratteristica di questo periodo, non si riesce a trovare un attimo per fermarsi, mettere a posto le idee e scrivere, anche se la lontananza dal blog si fa sentire e mi vengono in mente mille idee che sono costretta a mettere da parte.

Iniziamo dalla sòla, che non è una suola di scarpa né una tizia dall’accento strano che soffre perché abbandonata da tutti, ma la classica “fregatura” in gergo romanesco.
In più di un’occasione vi ho raccontato che sono una gran golosa, e quando posso mi piace sperimentare nuovi locali. In genere, dato che in cucina non me la cavo troppo male, specialmente nelle occasioni un po’ più “importanti” non vorrei “solo” mangiare bene, ma anche trovare un ambiente particolare, inusuale, un po’ di originalità che mi faccia rimanere soddisfatta per aver speso soldi in più e non essere rimasta a casa a preparare qualcosa nella mia mini-cucina da alchimista…
Ero convinta di trovare proprio questo, quando ho deciso di prenotare in questo ristorantino del centro…Date le premesse mi sembrava il posto giusto per passare una bella serata, festeggiare un evento piacevole, assaggiare qualcosa di speciale e tornare a casa con un bel sorriso.

Ci eravamo capitati per caso qualche tempo fa, passeggiando tra le bancarelle di una mostra di pittura, in una via animata e suggestiva della Capitale. Da fuori il posto sembra un piccolo gioiello, in mezzo a tanti locali standard e un po’ asettici: le finestre incorniciate di blu, gli ombrelloni all’entrata, le finestre del primo piano semiaperte da cui si intravedono lampadari di stoffa dal gusto un po’ retrò. Un’edera rampicante che ricopre parte della palazzina dà al tutto un’aria pittoresca e fuori del tempo. E’ amore a prima vista. Ma quel giorno abbiamo altri giri da fare, prendiamo nota del nome e ci promettiamo di tornarci alla prima occasione.

E così un giovedì, dato che è 12, dato che non c’è nulla in frigo, dato che la settimana è stata pesante e la voglia di gratificazione aumenta in proporzione, colgo la palla al balzo e chiedo a M. di prenotare un tavolo.

Fa freddo, quella sera, ma dopo tante giornate minacciate dalla pioggia una volta tanto non c’è bisogno di aprire l’ombrello. Parcheggiamo piuttosto lontano, come sempre quando si tratta di fare un’incursione in centro senza i mezzi pubblici. La colonnina del parcometro, attivo fino alle 3 di notte, ci attende come una sentinella e reclama il suo dazio. La camminata sui sampietrini (ma perché non ho messo le scarpe da ginnastica invece di questi simpatici stivaletti che si infilano in ogni fessura?) sembra una prova a ostacoli, ma c’è l’attesa della cena in quel posto così carino, che mi fa dimenticare ogni scomodità.

All’ingresso siamo accolti da una ragazza gentilissima (dato degno di nota, credo sia l’unico punto di forza che ho trovato in questo ristorante) che ci chiede i giacconi, li appende a una stampella, e ci consegna una carta da gioco per il loro ritiro. Da lì comincio ad intuire che il conto della cena non sarà particolarmente economico…ma fa niente, una volta tanto si può fare.

Inizia la prima nota stonata: nonostante avessimo prenotato e la sala fosse vuota, ci viene assegnato un tavolino piccolo e scomodo, quasi di taglio alla porta (e alla relativa corrente fredda). La cameriera ci vede delusi, ma è simpatica e gentile, perciò decide di accontentarci spostandoci in un angolo un po’ più comodo e discreto (“sapete, il principale non vuole che diamo questi tavoli alle coppie….non si sa mai che debba arrivare una comitiva…possiamo unirli e fare un tavolo unico…”). Ma il locale non è affatto pieno. Anzi.

L’aspetto all’interno mantiene abbastanza le promesse. Luci soffuse, illustrazioni di pop-art alle pareti, un misto un po’ kitch ma gradevole di richiami antichi e moderni.
Il tavolo è piccolo. Troppo. Ci portano il cestino del pane e quasi non c’è spazio dove poggiarlo. Forse colpa degli enormi sottopiatti di vetro, che prendono quasi tutta la tovaglia, ogni portata diventa il pretesto per equibrismi ed incastri stile “tetris”.

Apriamo il menù. Chissà perché da un posto così mi aspettavo una proposta completamente diversa. Sognavo rivisitazioni, creatività, macrobiotica, quello che volete, ma mai il classico menù per turisti con pasta al ragù, ravioli, lasagne e carbonara. A prezzi, ovviamente, stellari. Mi cadono le braccia mentre leggo e rileggo le voci della lista. Le scaloppine al marsala (che preparo a casa quando ho poca fantasia e poco tempo) vengono 14 euro…e sono uno dei piatti più economici. I contorni vengono 8 euro, 7 le patate al forno. Ma si sa, siamo in centro… Mi guardo attorno e realizzo che i pochi tavoli liberi sono quasi tutti occupati da stranieri. Siamo in trappola.

Dopo averci pensato un bel po’, mi butto sul piatto più originale tra quelli elencati: “gnocchi con le vongole” chiediamo con aria speranzosa alla cameriera (dato che è giovedì, secondo la tradizione dovrei trovarli fatti il giorno stesso). E invece no. “Oggi non serviamo pesce. Lo trovate solo il martedì, il venerdì e il sabato”. Perfetto…si dimezza la scelta del menù…Ci guardiamo sconsolati. “Hei” sussurro a M. con aria complice e un po’ sconfitta “A me di queste cose non attira nulla!” “Neanche a me” fa lui, che in genere è una buona forchetta, ma come me si aspettava qualcosa di diverso. “E adesso che facciamo?”… Ricominciamo a leggere e rileggere, alla fine l’unico piatto che ci attira, perché diverso dalla fettina alla piastra e dal filetto ai ferri che possiamo mangiarci comodamente a casa nostra, è la coratella con i carciofi.

Piatto povero e tipico della cucina romano-laziale, la coratella è un piatto (bello pesante) a base di interiora d’agnello. Ne ho già parlato qualche tempo fa….a proposito di un altro ristorante. Non lo mangio mai, è una di quelle classiche pietanze che uno mangia una o due volte l’anno, perché non ho nemmeno capito bene se mi piace sul serio… però è sfizioso, e con i carciofi non l’ho ancora mai assaggiato.

Dato che io e M. non siamo grandi bevitori (mi piace bere bene, ma in modica quantità), chiediamo se sono disponibili mezze bottiglie o vini al bicchiere. La cameriera ci guarda con aria costernata “In realtà sì, abbiamo il vino della casa…” ma dalla faccia non sembra affatto convinta “è un vino toscano….e…ehm…buono….ehm…se volete ve lo faccio assaggiare”. Mi volto con discrezione e vedo che agli altri tavoli si deliziano con questo vino della casa, ma la titubanza della nostra simpatica ospite ci fa pensare che forse sì, conviene assaggiarlo prima di ordinarlo sul serio. E infatti è una porcheria. Prima di tutto sta in un bottiglione da cinque litri, di cui occupa nemmeno un quarto. Segno che è stato aperto già da un bel po’. Il tappo è un normale tappo a vite, un trattamento che in breve tempo metterebbe a dura prova anche il migliore dei vini da tavola. All’assaggio è aspro, alcolico e per niente piacevole da bere. Ci dirottiamo su un’economica (secondo il menù) bottiglia di Nero d’Avola da 20 euro. Il cestino del pane ha 2 fettine di casareccio, tutto il resto è alle olive (che detesto, ma è colpa mia).

La coratella arriva dopo il giusto tempo di attesa, l’aspetto è appetitoso, fa un buon profumo, anche se al posto dei pezzettini di carne a cui ero abituata, trovo dei tocchettoni che di abbacchietto hanno davvero ben poco…il sapore infatti è molto forte, troppo, la carne è dura e gommosa, i carciofi sono stati cotti con tutte le foglie esterne, che restano fibrose e intatte anche dopo lunghi minuti di masticazione. Cerco di mantenere il contegno e mastico…mastico…mastico…Io e M. ci guardiamo ridendo perché non sappiamo dove buttare queste benedette foglie che non vogliono saperne di ammorbidirsi. Alla fine, sconfitti, le abbandoniamo discretamente nell’angolo del piatto, e per evitare che si formi un mucchietto di carciofi sputacchiati, evitiamo di mangiarne altri.

Torna la cameriera e ci chiede se vogliamo un dessert. “Che dolci ci sono?” “Allora…Strudel di mele…” la cosa si fa interessante ma….“No!” grida una voce dal fondo della sala “lo strudel è finito!” “Ah!” fa la nostra cameriera arrossendo “Allora solo crostata di ricotta e tiramisù” . Ci arrendiamo e chiediamo un caffè, rinunciando a prendere una comunissima macedonia da otto euro (che con la frutta invernale, è garanzia di sapore e vivacità).

Il caffè è buono, per lo meno. Ma la cena è stata davvero pessima. Poca scelta, nessuna originalità, piatto di qualità davvero scarsa. E la sòla più grossa è il conto. Una bottiglia d’acqua, una di vino, due secondi (di frattaglie!!!), pane e due caffè, per la modica cifra di 80 euro. “La prossima volta andiamo al T-bone”…mi fa M. con aria complice ma visibilmente insoddisfatta.

Mi dispiace per i turisti, e per la mia città, che si merita una cucina migliore, ristoranti migliori, e proprietari meno “furbetti” e attenti alla clientela. Nota di merito alla ragazza che ci ha servito quella sera, evitandoci almeno una cattiva bevuta.

La prossima volta, spero di capitare in un posto migliore e, perché no, riuscire a suggerirvi un locale dove passare una bella (e “buona”) serata.

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